Un blog di cinema...

ce n'era davvero bisogno?
Credo che il 99% dei film non siano "brutti" o "belli" in assoluto, e che talvolta anche un singolo elemento ben riuscito possa salvare un'intera opera, basta sapere dove guardare.
Credo anche che la vita di un uomo sia mediamente troppo corta per permettersi di sprecare tempo decidendo quale film vedere, con il rischio poi di aver fatto la scelta sbagliata. Questo spazio nasce con l'intento di fornire qualche indicazione a quanti non vogliono accontentarsi di giudicare un film dalla "trama" o dalla star che recita (senza nessun pregiudizio verso le trame ben scritte e gli attori di livello). Poche righe per sintetizzare gli aspetti che valgono delle pellicole che ho visto, lasciando a wikipedia (cliccando su registi e attori) e a youtube (cliccando sui titoli) l'onere di fornirvi tutte le informazioni supplementari. Per facilitare la consultazione ho creato degli indici apposti, inserendo in Prima Fila i film consigliati, in Peggio del Peggio quelli da evitare e suddividendo le opere per aree tematiche piuttosto che di genere: Film Blu per thriller, noir, poliziesco, azione ecc, Film Bianco per le commedie e i film più "leggeri", Film Rosso per quelli drammatici e affini (ma una singola opera può essere segnalata in più categorie proprio perchè le suddivisioni per genere risultano spesso troppo rigide) e Film Oro per i grandi classici. Infine una sezione più "critica" (Oltre lo schermo) per chi vuole approfondire determinati argomenti. Buona visione.

martedì 12 gennaio 2010

Oltre lo schermo - Gomorra

La tragedia della camorra dalla cellulosa alla celluloide



C'è una vecchia battuta che girava a Hollywood negli anni'40: due capre trovano in un prato delle bobine di un film e si fermano a brucare. Terminato il pasto, una fa all'altra: «Com'era?»; e questa le risponde: «Meglio il libro». La gag sintetizza una mentalità diffusa nel mondo del cinema, ovvero quella che porta, qualora ci si trovi dinnanzi ad un film tratto da un'opera letteraria, a considerare il testo originario a partire dal quale viene poi realizzata la pellicola, una creazione che risulta sempre migliore rispetto alla sua trasposizione cinematografica. Anzi, a ben vedere, nella battuta delle due capre c'è già qualcosa in più; ovvero il superamento, in chiave ironica, di questa tendenza. Proprio perchè, se è vero che spesso è difficile realizzare un ottimo film da un ottimo libro, i casi eccellenti non mancano.
E' questo il caso di Gomorra, doppiamente riuscito perchè ispirato al fenomeno editoriale dell'anno (o, meglio, degli ultimi anni: il libro esce nel 2006 facendo incetta di premi e raggiungendo quota un milione e duecentomila copie vendute, più de "La Casta" di Stella e Rizzo), il libro-scandalo dal titolo omonimo, in cui Roberto Saviano denuncia, anzi, svela, i meccanismi nascosti dell'imprenditoria della Camorra. Ho specificato: "svela" e non "denuncia", perchè le parole dell'autore non sono mai accusatorie, non assumono mai i connotati del grido di scandalo.
Lo stile è lucido, preciso, la denuncia è lasciata agli occhi e alle coscienze di chi legge. Visto così potrebbe sembrare un limite. Invece per certi versi è la forza del libro, l'occhio dell'autore è freddo perchè racconta di cose che nei luoghi dove accadono sono diventati la normalità, diventano connaturate alla stessa esistenza degli uomini e delle donne che, volenti o nolenti, fanno parte dell'ingranaggio, del Sistema. Non c'è pathos, non c'è emozione. Saviano non è l'amico che ci parla della malattia che l'ha colpito, ma piuttosto il medico che diagnostica il tumore. E forse è un bene, almeno nella misura in cui questo non lascia spazio a moralismo, pietismo, populismo.
Le microstorie, le vicende minimali sono spesso sacrificate in virtù dello smascheramento di quelli che sono le dinamiche generali su cui si regge questa macchina economica che ha il territorio campano come centro propulsore e tutta l'Italia, l'Europa, il Mondo, come campo in cui estende i suoi effetti, il suo potere.
Il racconto è dettagliato, chirurgico, una serie di nomi e di fatti narrati con spietato realismo. Invece che raccontare il peccato, Saviano preferisce dirci che c'è il male. Infatti, come lui stesso ha dichiarato, il suo intento era, ancor prima di parlare di Napoli e della camorra, di rilevare come il dramma esiste e tocca tutti quanti. Operazione riuscita, in modo egregio per certi versi. Anche se quello che manca è il giudizio su questo, il salto finale che porti dal raccontare il negativo a trovarne, se non una soluzione, per lo meno una spiegazione. Verrebbe da citare Italo Calvino quando dice che "l'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà, l'inferno dei viventi è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo viene facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio...". Ecco, Saviano racconta l'inferno, non si interessa a quello che di positivo può esserci in mezzo a tanta miseria. Così anche l'episodio del prete ucciso perchè predicava contro il Sistema, non è riportato per mostrare l'eroismo di chi afferma la vita contro la morte ma è funzionale a mostrare come il male non abbia limiti. E dovrebbe spiegarci l'autore se il grido che chiude il libro, quel "sono ancora vivo" urlato dai bassifondi, è solo lo sfogo liberatorio davanti alla disperazione o l'affermazione del fatto che, nonostante tutto, l'uomo è fatto per qualcosa di più di quanto quella realtà descriva.
Il film parte invece dalle vicende umane, utilizzate come un bisturi per scarnificare una realtà tragica. Ma le vicende non scadono mai nel metaforico, hanno al contempo la pregnanza del messaggio generale e l'incisività della storia singola. Nel contesto di un solarium, accecati dalla luce azzurra elettrica delle lampade solari che delineano un ambiente asettico, una realtà schizofrenica, alcuni uomini vengono "fatti fuori": le immagini dei corpi accasciati a terra sono accompagnate, per contrasto, dalle note melodiche di Gigi d'Alessio che rende ancora più inutili quei corpi immersi nel sangue. E' la realtà di Scampia, Secondigliano, Casal di Principe e tanti altri paesi e paesini della provincia campana: la vita sembra scorrere seguendo il flusso della normalità ma al suo interno il quotidiano cela una realtà perversa, allucinata. Lo schermo si fa nero e il titolo cubitale del film campeggia gigante in lettere dal sinistro colore violaceo, dando un senso di oppressione che schiaccia, soffoca la platea.
L'incipit è un gioiello registico, un film nel film che dà già le direttive di quelli che saranno gli oltre 120 minuti che seguiranno. Quando sullo schermo partono i sottotitoli che decifrano la fitta parlata partenopea di molti personaggi, qualcuno in sala trattiene la risata. Viene, effettivamente, da ridere a pensare ad un film italiano sottotitolato, eppure le voci di quei personaggi si impastano alle orecchie di chi ascolta, soprattutto da Roma in su probabilmente, come un magma denso e colloso nel quale catalizziamo come detriti solo qualche espressione, verbo, aggettivo. Ma è proprio questo un punto di forza del film: i personaggi che vediamo sullo schermo vengono da un altro posto, da un'altra realtà. Non è più Italia, non è più il nostro mondo. Non è neanche Napoli, la Camapania che, bene o male, tra stereotipi e luoghi comuni, comunque conosciamo. E' un universo a sé, un universo di violenza e di follia, di dinamiche imprenditoriali, di leggi economiche e leggi della vita a noi ignote, dove l'estraneità viene maggiormente sottolineata dal fatto che le persone, lì, parlano addirittura un'altra lingua. Ci siamo dentro, è vero. Il processo diegetico (quello che, sintetizzando, permette allo spettatore di immergersi nel mondo chiuso e compatto della finzione rappresentata) è completato, l'universo sputato fuori dal proiettore non ha sbavature, non ha crepe in cui possa inserirsi il sospetto della finzione. Eppure l'utilizzo del dialetto ancora di più ci presenta questo mondo come qualcosa di lontano, remoto e la fruizione del film avviene come se le immagini che ci scorrono davanti non fossero la rappresentazione di un mondo reale, carnale, di storie e vicende umane accadute, in un tempo e uno spazio che razionalmente riusciamo a percepire.
Il fim di Garrone è realizzato fin troppo bene, quasi patinato. Tempi registici perfetti, realizzazione ottima come la cura per i dettagli. Non sembra un film italiano, verrebbe da dire. O meglio: è proprio un film italiano, uno dei molti ottimi film che negli ultimi mesi/anni la produzione nostrana ha realizzato (in barba a tanti soloni che ne avevano decretato la morte celebrale). Ma Garrone si ferma ad un passo dall'epica. Sembra un calo di tono, è invece una scelta stilistica. Anche la morte avviene senza aggiunte, senza parole, senza eccessi narrativi. Senza repliche, senza che le vittime divengano eroi o martiri. Senza lasciare concessioni al romanticismo della violenza, all'ethos della criminalità, come magari sarebbe avvenuto in una pellicola d'oltreoceano. Sotto questo profilo il film di Garrone è in linea con il racconto di Saviano. Ma il film riesce bene perchè non è la trasposizione del libro ma un'opera diversa, come se il regista avesse letto il libro e avesse voluto girare un film che parlasse di quella realtà a modo suo.
Detto questo, i fatti raccontati hanno spesso richiami diretti con le vicende illustrate nel libro (non per niente lo scrittore napoletano e co-sceneggiatore). Cinque microstorie si intrecciano: un ragazzino guarda con ammirazione i boss e vuole far parte di quel mondo, due giovani giocano a fare Scarface e vogliono essere i padroni del quartiere, un sarto insegna ai cinesi, di nascosto dal clan, a confezionare abiti contraffatti, un uomo si occupa di consegnare i soldi alle famiglie dei carcerati affiliati, un altro fa lo stakeholder (Toni Servillo, attualmente il migliore attore italiano; e non da oggi, come molti si piccano di dire, ma almeno da quando, nel 2004, Paolo Sorrentino gli cucì addosso il personaggio di Titta di Girolamo ne "Le conseguenze dell'amore"), colui che si occupa dello smaltimento abusivo dei rifiuti tossici delle industrie del nord.
Qualcosa è riportato pari pari dal testo, qualcosa è aggiunto, qualcosa è modificato, qualcosa manca. Non vi è però la presunzione di riportare sullo schermo la struttura e la mole di informazioni del best-seller: quest'opera, in definitiva, non è la trasposizione di Gomorra di Saviano dalla cellulosa alla celluloide.
E', semplicemente, Gomorra di Garrone.

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